La parabola degli operai alla vigna (Mt 20,1-16)
La parabola inizia con il greco gar, “infatti” ed è il seguito della risposta di Gesù alla domanda di Pietro su”cosa avremo in cambio”. La pericope può essere strutturata il tre parti. La prima con il racconto dell’ingaggio degli operai (vv.1-7), la seconda con il momento della paga (vv.8-10) e la terza con la giustificazione del padrone e monizione finale (vv.11-16).
Il protagonista è il padrone di casa che a vari orari esce a cercare gli operai per la sua vigna e questo rappresenta i continui appelli di Dio dentro il nostro quotidiano, alla ricerca di ogni frammento della nostra disponibilità a seguirlo.
Questo padrone è pieno di iniziativa, sono ben otto i verbi che specificano la sua attività, contro i due della risposta degli operai. Quando esce di casa egli scruta attentamente alla ricerca di mano d’opera e si reca sulla piazza della città, luogo in cui si facevano trovare i braccianti alla ricerca di lavoro.
Solitamente i padroni uscivano di buon mattino per poter assumere gli operai più giovani e fisicamente più prestanti ma questo padrone esce ad ogni ora, fino a sera, quando ormai sulla piazza restavano i meno giovani, ammalati e dal fisico meno apparente. Anche a loro è rivolto lo stesso invito, come ai primi; anch’essi sono degni di riempire di senso la loro vita attraverso la considerazione delle loro seppur limitate capacità. Il continuo invito del padrone è accompagnato dal verbo andare all’imperativo, ad indicare l’invito al cammino di conversione ed alla coltivazione della buona vigna della fede.
Il contratto di lavoro non appare chiaro all’inizio ma il padrone lascia intendere quale sarebbe stato con l’espressione “quello che è giusto ve lo darò” ed agisce in ottemperanza alla Torah: “Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città. Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e a quello aspira. Così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato” (Dt 24,14-15).
L’assunzione poi degli ultimi apre la suspence narrativa e prepara la finale a sorpresa con l’inizio del pagamento a partire dagli ultimi, prassi assolutamente insolita ma qui è una provocazione alla logica umana che si aspetterebbe l’incremento di onorario agli operai che hanno lavorato più ore.
La paga tuttavia è uguale per tutti e sta qui la prima risposta di Gesù alla provocazione di Pietro: chi ha ricevuto di più deve dare di più ed in questo è “servo inutile”, ovvero è servo che trova già la sua ricompensa nel servizio stesso che svolge con generosità, mettendo a frutto i carismi ricevuti.
Repentina si alza la protesta degli operai della prima ora, quando si vedono trattati come coloro che “hanno lavorato un’ora soltanto”. È interessante cogliere il movente della protesta, il quale non consiste nel denaro ricevuto, come tacitamente pattuito secondo le tariffe vigenti. Questi non protestano contro la paga ma contro la generosità del padrone che avrebbe dovuto dare agli ultimi molto meno di un denaro.
L’evangelista racchiude nella categoria dei primi i giudei e i giusti che sono stati favoriti dalla scelta elettiva di Dio, mentre gli altri sono i gradualmente più lontani dalla Torah, fino ad arrivare agli ultimi, intendendo i pagani e i peccatori, categoria privilegiata dall’opzione di Gesù.
Così facendo quel padrone, quindi Dio stesso in Gesù, fà saltare la vecchia teoria retribuzionistica che collegava il merito al premio ed il peccato al castigo, facendo consistere il merito non nella quantità del lavoro fatto per Dio ma nella qualità della risposta che a Lui offre la disponibilità totale. È lo stesso criterio con cui Gesù perdona il ladrone pentito, ormai morente accanto a lui sulla croce, promettendogli il Paradiso (Lc 23,43).
Con l’espressione “io sono buono” è sconfitta la fredda logica del calcolo umano dal padrone che è Dio (Io Sono) e dalla sua caratteristica principale di essere buono.
La seconda risposta di Gesù a Pietro è il monito finale della parabola: “Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi” ed è l’invito ai discepoli a diventare ultimi per essere maggiormente graditi da Dio.
di Ferrario Fabio