La preoccupazione religiosa è fondamentale nella scrittrice e sociologa francese, donna di grande temperamento mistico e rivoluzionario, già combattente in Spagna contro Franco.

WEIL SIMONE (1909-1943)

 

Poiché il popolo è costretto a portare tutto il suo desiderio su quel che già possiede, la bellezza è fatta per lui ed esso è fatto per la bellezza.

La poesia è un lusso per le altre condizioni sociali; il popolo ha bisogno di poesia come di pane. Non già la poesia racchiusa nelle parole; quella, in sé, non può essergli di alcun uso. Ha bisogno che sia poesia la sostanza quotidiana della sua stessa vita.

Una poesia simile può avere solo una sorgente. Questa sorgente è Dio. Questa poesia può essere solo religione. Nessuna astuzia, nessun procedimento, nessuna riforma, nessun. sconvolgimento possono far penetrare la finalità nell'universo dove la loro stessa condizione colloca i lavoratori. Ma questo universo può essere tutto sospeso alla sola finalità che sia vera. Può essere congiunto a Dio. La condizione dei lavoratori è quella nella quale la fame di finalità che costituisce l'essere stesso di ogni uomo non può essere saziata se non da Dio.

Questo è il loro privilegio. Sono i soli a possederlo. In tutte le altre condizioni, nessuna eccettuata, si propongono all'attività dei fini particolari. Ogni fine particolare, foss'anche la salvezza di un'anima o di molte anime, può divenire uno schermo e nascondere Dio. Col distacco bisogna trapassare lo schermo. Per i lavoratori non c'è schermo. Nulla li separa da Dio. Devono solo alzare la testa.

Per loro la difficoltà è alzare la testa. Essi non hanno, come tutti gli altri uomini, qualcosa di troppo di cui debbano sbarazzarsi a fatica. Hanno qualcosa di troppo poco. Mancano di un intermediario. Quando si sia consigliato loro di pensare a Dio e di fargli offerta delle loro pene e delle loro sofferenze, non si è ancora fatto nulla per essi.

Gli uomini vanno in chiesa al fine di pregare; eppure si sa che non potranno farlo se non vengono forniti alla loro attenzione degli intermediari atti ad aiutare il loro orientamento verso Dio. L'architettura stessa della chiesa, le immagini di cui è piena, le parole della liturgia e delle preghiere, i gesti rituali del prete sono questi intermediari. Fissando in essi l'attenzione, essa si trova orientata verso Dio. Come è ancora più grande la necessità di simili intermediari sul luogo di lavoro, dove si va solo per guadagnar si da vivere! Là, tutto lega il pensiero alla terra.

Ora, non è possibile collocarvi immagini religiose e proporne la contemplazione ai lavoratori., E nemmeno si può suggerir loro di recitare preghiere mentre lavorano. I soli oggetti sensibili sui quali possano portare la loro attenzione, sono la materia, gli strumenti, i gesti del loro lavoro. Se questi oggetti non si trasformano in specchi della luce, è impossibile che durante il lavoro l'attenzione sia orientata verso la sorgente di quella luce. Una simile trasformazione è la necessità più urgente.

Essa è possibile solo se nella materia, quale si offre al lavoro degli uomini, ci sia una qualità riflettente; perché si tratta di fabbricare finzioni o simboli arbitrari. La finzione, l'immaginazione, la fantasticheria non stonano mai tanto come nelle cose che concernono la verità. Ma, per nostra fortuna, c'è nella materia una qualità riflettente. Essa ,è uno specchio offuscato dal nostro respiro. Bisogna solo pulire lo specchio e leggere i simboli che fin dall'eternità sono iscritti nella materia.

L'Evangelo ne contiene alcuni. In una camera, per pensare alla necessità della morte morale in vista di una nuova e vera nascita, c'è bisogno di leggere o di ripetere le parole sul chicco di grano che solo la morte rende fecondo; ma chi sta seminando può, se lo vuole, portare la sua attenzione sopra questa verità senza bisogno di nessuna parola, attraverso il proprio gesto e lo spettacolo del seme che si cela.

Se non ragiona intorno ad esso, se solo lo guarda, l'attenzione che porta al compimento del suo lavoro non ne è ostacolata, bensì portata al massimo grado di intensità. Non a caso si chiama attenzione religiosa il grado più elevato dell'attenzione. La pienezza dell'attenzione non è altro che la preghiera.

Avviene lo stesso per quanto concerne la separazione dell'anima e del Cristo, che dissecca l'anima come si dissecca la fronda recisa dal tronco. La potatura della vigna dura per giorni e giorni, nelle grandi proprietà. Ma c'è in quella operazione una verità che è possibile osservare per giorni e giorni, senza esaurirla.

Sarebbe facile scoprire, iscritti dall'eternità nella natura delle cose, molti altri simboli capaci di trasfigurare non solo il lavoro in genere, ma ogni compito nella sua individualità. Il Cristo è il serpente di bronzo che basta guardare per sfuggire alla morte. Ma bisogna poterlo guardare in modo assolutamente ininterrotto. Per questo bisogna che le cose, sulle quali i bisogni e gli obblighi della vita costringono a portare lo sguardo, riflettano quel ch'esse ci vietano di guardare direttamente. Sarebbe molto strano che una chiesa costruita da mano d'uomo fosse piena di simboli e che l'universo non ne fosse infinitamente colmo. Ne è infinitamente colmo. Bisogna leggerli.

L'immagine del Cristo, paragonata ad una bilancia, nell'inno del Venerdì Santo, potrebbe essere una inesauribile ispirazione per coloro che portano pesi, maneggiano leve e sono, la sera, stanchi per la pesantezza delle cose. In una bilancia un peso considerevole e prossimo al punto d'appoggio può esser sollevato da un peso piccolissimo posto ad una distanza molto grande. Il corpo del Cristo era un peso ben lieve, ma per la distanza fra la terra e il cielo ha fatto da contrappeso all'universo. In modo infinitamente differente, ma sufficientemente analogo per poter servire da immagine, chiunque lavori, sollevi pesi, maneggi leve, deve egualmente, col suo debole corpo, far da contrappeso all'universo. E ciò è troppo pesante e spesso l'universo piega con la stanchezza corpo ed anima. Ma chi si tiene al cielo farà facilmente contrappeso. Chi ha intuito una volta questa idea non può esserne distratto per quanta sia la stanchezza, la fatica e il disgusto. Tutto ciò non può far altro che ricondurlo a quella idea.

“Impotenza di Dio. Il Cristo è stato crocifisso; suo Padre l’ha lasciato crocifiggere; due aspetti della stessa impotenza. Dio non esercita la sua onnipotenza; se l’esercitasse, non esisteremmo né noi né niente. Creazione: Dio che s’incatena mediante la necessità – Si può sperare che alla morte le catene cadano, ma si cessa anche di esistere come essere separato. Perché la creazione è un bene, pur essendo inseparabilmente legata al male? Perché è un bene che io esista, e non Dio soltanto? Che Dio si ami attraverso il mio miserabile intermediario? Non posso capirlo. Ma tutto ciò che io soffro, lo soffre Dio, per effetto della necessità della quale egli si astiene di falsare il gioco.” (Così egli fu uomo ed è materia, nutrimento). Simone Weil, Quaderni, vol. II, Adelphi Edizioni, Milano 1985, pag. 95.

 

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Gesù ha intriso della sua presenza e della sua parola lo storia dell'Occidente che non sarebbe tale senza di lui

Incontri e scontri con Cristo

di Gianfranco Ravasi. Jesus febbraio 2007

Nel calendario liturgico del 2 febbraio è registrata la celebrazione della Presentazione del Signore Gesù al tempio. Il racconto dell'evento è dovuto, come è noto, a Luca che introduce, accanto alla famiglia di Nazaret, Simeone e Anna, due figure anziane di fedeli che incarnano la speranza messianica di Israele. Ora nell’’oracolo’ di taglio profetico che Simeone pronunzia in quell'occasione c'è una frase forte per definire quel piccolo che egli regge sulle braccia (tant'è vero che lo si chiamerà in greco Theodòchos, ‘colui che accoglie Dio’, allusivo per assonanza a Maria che è, invece, la Theotòkos, ‘la madre di Dio’). Egli dichiara che Cristo sarà un seméion antilegòmenon, un “segno di contraddizione” (Luca 2,34).

Ecco, noi vorremmo ora - sia pure in modo molto semplificato e solo emblematico - mostrare come nella storia successiva della cultura Gesù sia stato proprio un ‘segno’ impossibile da evitare, col quale fare i conti, da abbracciare o respingere. È un po' il ‘Gesù degli altri’, rispetto al ‘nostro Gesù’, così come è stato celebrato dalla tradizione ecclesiale cristiana attraverso i secoli. Per fare questo, ci pare suggestivo partire dal Cristo storico, da una scena molto nota dei Vangeli che ha al centro una domanda decisiva.

Alle spalle di Gesù si levava il monte Hermon con la sua vetta innevata: si sentivano gorgogliare le sorgenti a cascata del Giordano: accanto a una grotta sacra a Pan, il re Erode aveva eretto un tempio in onore dell'imperatore Augusto, denominando la località col toponimo di Cesarea, assegnandola in morte al figlio Filippo. In questa cornice Gesù aveva lasciato cadere tra i suoi ascoltatori una domanda sottilmente provocatoria che nel greco evangelico suona così: Hyméis de tina me léghete einai; “Ma voi chi dite che io sia?” (Matteo 16, 15). Nei secoli questo interrogativo ha continuato a serpeggiare, anche perché - come diceva un ormai dimenticato Alfredo Oriani, scrittore ‘laico’ dell'Ottocento - “credenti o increduli, nessuno sa sottrarsi all'incanto di quella figura, nessun dolore ha rinunciato sinceramente al fascino della sua promessa”.

Significativa è, al riguardo, la testimonianza emblematica di uno che aveva fatto di tutto per evitarlo, il poeta russo Aleksandr Blok. In piena rivoluzione sovietica, nel 1918, componeva il poema I Dodici e confessava: “Quando l'ebbi finito, mi meravigliai io stesso: perché mai Cristo? Davvero Cristo? Ma più il mio esame era attento, più distintamente vedevo Cristo. Annotai allora sul diario: Purtroppo Cristo. Purtroppo proprio Cristo!”.

Aveva un bel dire Nietzsche nel suo Anticristo che Gesù era stato “l'unico cristiano della storia, finito però in croce”, nella convinzione comunque che era morto troppo presto: “Se fosse giunto alla mia età, avrebbe ritrattato lui stesso la sua dottrina” (in Così parlò Zarathustra).In realtà - e venti secoli di storia stanno lì ad attestarlo aveva più ragione il meno famoso autore greco dell' Ultima tentazione di Cristo, Nikos Kazantzakis, quando sulla falsariga del Vangelo di Giovanni, immaginava quella fine, avvenuta su uno sperone roccioso di Gerusalemme detto in aramaico Golgota (cioè Cranio, in latino Calvario), così: “Levò un grido di trionfo: Tutto è compiuto! Ma fu come se dicesse: Tutto comincia!”.

Ed effettivamente da allora era iniziata una storia di confronti e scontri con Cristo, di creazioni fantastiche (pensiamo agli apocrifi), di arte, di pensiero, di rigetti veementi, di appropriazioni indebite, di degenerazioni, di amori appassionati fino al martirio. Se il Miller del Tropico del cancro giungeva al punto di farsi incidere una croce sulla suola delle scarpe per poter calpestare in ogni passo Cristo e la sua religione, c'era però un genio supremo come Dostoevskij che non esitava a scrivere nel 1854 alla Fonzivina: “Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”.

Di là di questo paradosso, affiora un'adesione che non si è mai spenta nei secoli raggiungendo apici assoluti. E, specularmente, si registrano reazioni di ostilità veemente e violenta, come è attestato in modo esemplare dalla storia delle persecuzioni e, in forma sottile e sconcertante, dalle appropriazioni ipocrite, interessate, funzionali delle stesse istituzioni (e qui ancora ci viene incontro Dostoevskij con la sua indimenticabile parabola del gelido e grandioso Grande Inquisitore). A non molti decenni di distanza dalla fine di Gesù di Nazaret, in Egitto l'anonimo autore del Vangelo gnostico detto ‘di Filippo’, in piena epoca imperiale romana, non esitava a scrivere: “Se dici: Sono ebreo! nessuno si scompone. Se dici: Sono romano! nessuno trema. Se dici sono greco, barbaro, schiavo! nessuno si impressiona. Ma se dico: Sono cristiano! il mondo trema”.

È per questo che già san Pietro ammoniva i suoi discepoli così: “Se uno soffre come cristiano, non arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome” (I Pietro 4,16). A confrontarsi con Gesù era stato subito il suo stesso popolo, l'ebraico, e sarà da allora un continuo e reciproco scontro e incontro, simbolicamente rappresentato in una frase del suggestivo scritto Fratello Gesù dell'ebreo tedesco Schalom Ben Chorin (1967) rivolta ai cristiani: “La fede di Gesù ci unisce, ma la fede in Gesù ci divide”. È ovvio, infatti, che l'ebraismo religioso di Gesù è lo stesso di quello creduto e praticato da Israele, ma la sua ‘pretesa’ di messianicità e di divinità accolta e professata dai cristiani segna un solco divisorio radicale. Eppure un ebreo come Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Cristo rispondeva: “Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare”.

Analogo sarà l'incrocio con l'islam che assorbirà per osmosi tanti temi ed eventi evangelici, anche attraverso deformazioni gnosticheggianti, come nel caso della tesi del ‘sosia’ in croce (Gesù non sarebbe morto crocifisso, perché troppo ignominioso per un profeta come lui, ma sarebbe stato sostituito da un altro ebreo, forse da Giuda o dal Cireneo). Ben 15 sure e 93 versetti del Corano parlano di lui e lo celebrano come masih, ‘messia’, rasul, ‘inviato’ profetico di Dio, ‘parola di Dio’, perfetto muslim, cioè credente totalmente ‘sottomesso’ alla volontà divina. Tuttavia rimane anche qui la pietra d'inciampo della divinità: “0 uomini del Libro, non superate il limite della vostra religione e su Dio dite solo il vero! Gesù, il messia, figlio di Maria, è soltanto l'inviato di Dio, la sua parola deposta in Maria, è uno spirito che viene da lui. Credete in Dio e nei suoi inviati, ma non dite mai: Tre!... Dio non è che un solo Dio. Lungi dalla sua gloria avere un figlio!” (Corano 4, 171).

Dalla data della sua nascita, convenzionalmente posta come discrimine del computo dominante del tempo storico, Gesù ha intriso della sua presenza e della sua parola la storia dell'Occidente che non sarebbe tale senza di lui, nel bene e nel male. Nel 1972 in un suo saggio il filosofo marxista praghese Milan Machovec si è interessato anche sul cosa sia Gesù per gli atei. Fede e dubbio, adorazione e bestemmia, si sono infatti intrecciate attorno a lui. La teologia nei secoli ha elaborato immani architetture cristologiche. L'agnosticismo ha cercato di ‘smitizzare’ Cristo trattenendolo nel grembo esclusivo dell'umanità ora come un eroe rivoluzionario, ora come un Ercole potente (Ronsard), ora come un Orfeo ammaliatore Jouve e Pierre Emmanuel).

Si è cercato di vederlo come l'incarnazione di un ideale morale altissimo (Tolstoj), come un supremo maestro di etica, simbolo dello spirito umano (Hegel), come un perfetto e superiore Socrate (Rousseau), come la “figura dolce e semplice” dell'umanità, antitetica all'intolleranza della Chiesa (Voltaire), come “il mediatore senza il quale ogni comunicazione con Dio è soppressa” (Pascal), talora appropriandosene per finalità socio-politiche (i nostri contemporanei ‘teocon’ e ‘atei devoti’) oppure banalizzandolo e falsificandolo in profili erotico-esoterici alla Dan Brown e altro ancora.

Lo si è rigettato perché alfiere “dei cuori puri, dei sofferenti e dei falliti” (Nietzsche) o relegato tra gli utopisti e i “vagabondi flagellati” (Hugo) e persino ridotto a una caricatura (Anthony Burgess e Gore Vidal) o a un'appassionata blasfemia (José Saramago), a una paradossale fede ‘atea’ liberatrice dagli incubi sacrali (Bloch) o enfaticamente esaltato come “il più grande Rovesciatore, il supremo Paradossista, il Capovolgitore radicale e senza paura” (Papini).

Un credente adamantino come Mauriac confessava nella sua famosa Vita di Gesù (1936): “Non avessi conosciuto Cristo, ‘Dio’ sarebbe stato per me un vocabolo vuoto di senso... Il Dio dei filosofi e degli eruditi non avrebbe occupato nessun posto nella mia vita morale. Era necessario che Dio s'immergesse nell'umanità e che a un preciso momento della storia, sopra un determinato punto del globo, un essere umano, fatto di carne e di sangue, pronunciasse certe parole, compisse certi atti, perché io mi gettassi in ginocchio”. A ragione scriveva nel 1969 Luigi Santucci nella sua ‘vita di Cristo’, suggestivamente intitolata con la celebre domanda di Gesù: Volete andarvene anche voi?(Giovanni 6, 67), che davanti alla figura di Cristo si addensano “le certezze e l'entusiasmo delle ore cristiane ma anche germogliano le erbe del dubbio e dell'angoscia. Grano e zizzania, come sta scritto, nel libero campo della vita”.

Pubblicando nel 1985 a Yale, negli Stati Uniti, un'opera su Gesù attraverso i secoli e il suo posto nella storia della cultura Jaroslav Pelikan scriveva: “Al di là di ciò che ognuno possa personalmente pensare o credere di lui, Gesù di Nazaret è stato per quasi venti secoli la figura dominante nella storia della cultura occidentale”. Nei volti mutevoli sotto cui Gesù è stato raffigurato si ha lo specchio delle inquietudini, delle speranze, della fede, dell'attesa, del dubbio e del rifiuto dell'umanità. Si ha l'eco perenne di quella domanda da cui siamo partiti e che Gesù aveva lasciato serpeggiare tra i suoi discepoli e che continua a rimbalzare anche in questo tempo un po' sbrigativamente classificato come ‘postcristiano’. Infatti, come scriveva Mario Pomilio nel suo Quinto evangelio (1975), “Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?”. Era stato un marxista come Ernst Bloch nel suo Ateismo nel cristianesimo a cercare di spiegare quanto sia inquietante quell'interrogativo anche per l'agnostico di oggi: “In Gesù non venne inchiodato sulla croce un fanatico inoffensivo ma fu l'avvento di un uomo che inverte i valori del mondo presente”.