Lampeggia anche in Quasimodo, Nobel italiano in letteratura nel 1959, la presenza di Gesù. Memoria dell'infanzia, si direbbe, o mito sobriamente alluso. Ma forse c'è una radice più profonda.

QUASIMODO SALVATORE (1901-1968)

 

Amen per la Domenica in Albis

Non m'hai tradito, Signore:

'ogni dolore

son fatto primo nato.

Di un altro Lazzaro

Da lontanissimi inverni, percuote

un gong sulfureo il tuono sulle valli

fumanti. E come in quel tempo, si modula

la voce delle selve:“ Ante lucem

a sommo raptus, ex herba inter homines,

surges ”. E si rovescia la tua pietra

dove èsita l'immagine del mondo.

 

E Quasimodo rifà il Vangelo

Un'intervista d'epoca al poeta rievoca la sua traduzione dal greco del Vangelo di Giovanni. Il Nobel trovò che nel testo dell' 'Ecce Homo' non è Pilato a mostrare Cristo alla folla, bensì Gesù stesso a presentarsi: 'Eccomi'. Gli esperti protestarono ma diedero l'imprimatur.

“Io non sono ateo sono un cristiano e non potrei non esserlo”

“Eccomi. Non è Pilato che porta fuori Cristo, ma è Cristo stesso che esce con la corona di spine e il manto rosso e dice: eccomi”.

di CLAUDIO CASOLI da Avvenire 08. 05. 2005

Quasimodo, lei non accetta più d'essere incluso tra i poeti ermetici?

“Ho iniziato io l'ermetismo in Italia. Gli altri ne hanno fatto una scuola che è venuta dopo, nel '36. Io avevo cominciato prima con la ricerca d'un nuovo modo d'espressione; per questo ho detto che un poeta non può ripetere un altro poeta. Pensi ai tentativi che vengono fatti oggi nella pittura. Quanti pittori sono impegnati nella ricerca d'un nuovo linguaggio pittorico? Astrattismo? Informale? Poi tra tutti si stacca un pittore vero, di valore, il quale esce dal gruppo e diviene un maestro. L’ermetismo è nato con me, potrei dire... purtroppo...”.

Lei considera la sua poesia come una voce nuova. In che cosa consiste questa novità? Ci sono state delle polemiche non solo sulla forma...

“Nella mia poesia ho tentato di comunicare con gli altri, ma ciò che è stato accettato o discusso, erano i contenuti di essa. La polemica indica che la mia comunicazione coi lettori era giunta a segno. Io avevo delle riserve anche in fatto di linguaggio - ecco la novità; mi estraniavo dal conformismo e mi avvicinavo alla contemporaneità. La presenza dei poeti ha una funzione sociale e politica direi sotterranea. E un fatto che tutti o quasi i nostri poeti sono andati in esilio, a cominciare da quelli del Dolce stil Novo: Dante, Dino Cavalcanti, Lapo Gianni, e poi su su, sino a Foscolo. Senza dimenticare le deportazioni e le fucilazioni di scultori e poeti in ogni parte del mondo. Evidentemente c'è una ragione: è la lotta del potere contro la forza delle idee”.

Allora poeti e scrittori sono di preferenza le vittime della politica, perché...

“Perché non possono tacere e non possono non comunicare con gli altri”.

I poeti, secondo lei, devono tener conto di quanto hanno scritto gli altri poeti che li hanno preceduti?

“Non si può dimenticare Dante, Petrarca, Ariosto, né si può reinventare la poesia, sarebbe assurdo; sarebbe come voler riscoprire la pittura, la musica. Solo i giovani, oggi, hanno questa presunzione che noi non abbiamo mai avuto”.

Che cosa pensa dell'atteggiamento di rifiuto dei giovani nei confronti anche dell'esperienza letteraria degli scrittori non più giovani?

“È difficile definire quale sia il nostro atteggiamento nei loro confronti. Non è di opposizione in quanto non neghiamo la necessità delle loro sperimentazioni, comunque queste sono assai diverse dalle nostre d'un tempo. Noi cercavamo un linguaggio nuovo, loro al contrario cercano quasi una nuova lingua; questo è un assurdo: una nuova lingua formata da innesti da altre lingue straniere. Ecco che cosa avviene ora nel campo delle avanguardie: uno scrittore italiano non può essere più letto da un francese o da un inglese. Ognuno finisce con l'essere letto entro i propri confini linguistici e la cultura diventa così un prodotto provinciale. Tutti i contenuti sono uguali, di rivolta o pseudorivolta. Lo stesso avviene nella musica leggera: ognuno crede di scoprire un nuovo tipo di canzone anticonformista, e invece i contenuti sono sempre romantici e la musica è anglosassone. Perché c'è questo continuo oscillare nel campo della cultura? Perché i mezzi meccanici hanno dato la facilità di volgarizzare le forme di comportamento della civiltà contemporanea. Se non ci fosse la televisione non ci sarebbe nemmeno l'inflazione delle canzoni. Ma oggi gli interessi economici confondono arte e pseudo arte”.

La formazione di noi “matusa” è stata differente... di lei, ad esempio...

“La mia formazione è stata quella di tutta la mia generazione: educazione formalmente cristiana e cultura umanistica. Mio compagno d'infanzia è stato Giorgio La Pira. Ho delle sue lettere; mi esorta a una forma attiva di religione, mi dice: "Vai a confessarti!'. Io ho sempre provato difficoltà; per questo ho scritto anche una poesia che incomincia: "Mi trovi deserto, Signore, nel tuo giorno”. Dovevo fare l’ingegnere e ho studiato ingegneria; La Pira è divenuto professore di Diritto Romano, ma da ragazzo studiava ragioneria. Poi siamo stati afferrati da due nobili fratelli di Messina, i fratelli Rampolla del Tindaro. Io venni qui a Roma dove monsignor Mariano Rampolla, che fu poi presidente di Propaganda fide, nel suo studio dell'Accademia pontificia dei nobili ecclesiastici, mi accoglieva ogni giorno per insegnarmi greco e latino. La Pira fu invece afferrato dal fratello professore a Messina che fece studiare anche a lui latino e greco e lo avviò all'università. Abbiamo avuto tutti e due una formazione lenta, paziente" una maturazione minuto per minuto”.

Lei ha tradotto il “Vangelo di san Giovanni”. C'è stata una ragione di ricerca religiosa, come dice la critica?

“L'ho tradotto durante la guerra proprio per una ricerca mia personale”.

Perché proprio quello di san Giovanni?.

“Perché era il più difficile e mi prometteva di chiarire il rapporto di me, uomo, con il termine ‘Dio’. La stessa ricerca l'avevo fatta prima sui testi di sant'Agostino e su Spinoza. Però avevo sempre seguito sant'Agostino, ma fino al momento in cui egli giunge alla fede. Lì sant'Agostino non scrive più. S'inginocchia e prega. Il suo problema finisce lì, è risolto”.

Per lei l'approssimazione alla fede è tutta nella ricerca e permane nella problematica?

“Se la problematica finisce, allora si crede... Il mondo si muove, nella vita dello spirito non ci sono mai risultati definitivi, o, se ci sono, sono di natura individuale”.

Il Vangelo che lei ha tradotto non è stato per lei solamente un lavoro di natura filologica ma anche, come ha detto, una ricerca di chiarificazione interiore.

“Una ricerca di chiarificazione di questo genere non è solamente filologica, ma la stessa filologia m'ha aiutato in questa verifica interiore che si andava facendo tra me, il testo e quello che poteva esserci al di là del testo. Il mio Vangelo ha l’imprimatur. Ho dovuto discutere coi domenicani; ne ho avuti in casa parecchi: m'hanno fatto delle lunghissime osservazioni teologiche. Ma io mi riferivo al testo greco”.

Ha avuto l' “imprimatur”?

“Sì, ho avuto l’imprimatur e la traduzione è stata accettata in pieno. Le dirò un particolare: sull'episodio dell' Ecce Homo quando Pilato si affaccia all'ingresso del pretorio e presenta Cristo dopo la flagellazione, ho scoperto che nel testo latino era stato aggiunto un soggetto: et Pilatus come se quelle parole le dicesse lui. Invece in greco c'è: idou anthropos cioè una espressione pleonastica che vuol dire: eccomi. Non è Pilato che porta fuori Cristo, ma è Cristo stesso che esce con la corona di spine e il manto rosso e dice: eccomi”.

È un'espressione più drammatica, mi pare; l'hanno accettata?

“M'hanno detto: "Lei distrugge così tutta una tradizione iconografica". Ma l'hanno accettata perché il testo greco dice così”.

Forse un antico amanuense aveva fatto l'interpolazione...

“Credo che sia stato fatto apposta nella volgata, col tentativo di aiutare Pilato a riconoscere in Cristo, ridotto a quel modo, l'uomo per eccellenza. Ma la frase, così com' è nel testo greco, ha un significato più potente. Cristo stesso si offre alla vista dei nemici, del giudice iniquo, ed è lui che appare il più forte”.

Lei fino ad ora è l'unico che ha notato questo particolare?

“L'ho scoperto traducendo”.

Alla fine della traduzione, quando ha potuto abbracciare, come in sintesI, la persona di Cristo, il suo insegnamento, le sue opere e tutto quello che traspare necessariamente da un testo così spirituale come è il Vangelo di san Giovanni tradotto parola per parola, quale impressione ha avuto di Cristo?

“Ho avuto l'impressione di una immensa forza spirituale. Certo ci sono delle forze della natura che sono superiori all'uomo; ma Cristo appare superiore alle forze della natura.

Sempre nel contesto umano?

“Non solo nel contesto umano”.

Ha avuto la sensazione che in Cristo ci sia qualcosa di divino?

“Il senso del divino nasce in noi fin da ragazzi”,

Voglio dire: leggendo il Vangelo e traducendolo, non ha avuto la sensazione che i fatti narrati, la presenza così potente di Cristo, la sua parola, porti il lettore al di là d'ogni esperienza umana?

“Io comunque non sono ateo, credo che questo l'abbia capito; sono un cristiano e non potrei non esserlo”.

Nella sua poesia del dopoguerra il senso religioso si fa nettamente cristiano, mi pare, se valgono i riferimenti all'amore insegnato da Cristo e costantemente ignorato dall'uomo. La sua, è l'accettazione di Cristo come modello di comportamento per gli uomini che intendono sopravvivere e giungere a maturità, oppure anche attesa d'una salvezza che possa venire da Lui?

“La mia è l'attesa di sant'Agostino, l'attesa della fede”.