(Da P. Ricoeur, La critica e la convinzione, a c. di Daniella Iannotta, Milano, Jaca Book, 1997, pp. 211-214).
Paul RICOEUR (1913-2005)
Una lettura della passione, morte e risurrezione di Gesù
Nell’esegesi o nell'ermeneutica biblica, i metodi da lei descritti in precedenza - a partire dal metodo storico-critico fino alle letture kerygmatiche - non incorporano, forse, ineluttabilmente concetti o argomenti di ordine filosofico?
Sì, è ineluttabile, e soprattutto al livello della teologia confessante, che fa necessariamente ricorso al linguaggio culturale disponibile in una data epoca. Così, il kerygma biblico è stato trasmesso all'interno di una “lingua” volta a volta ellenistica, neoplatonica, kantiana, schellinghiana e via dicendo. Su questa mediazione del linguaggio filosofico ad uso delle teologie confessanti mi sono spiegato nei testi che figurano nel volume III delle mie Lectures, in cui - ecco un interessante modo di funzionamento misto - una ermeneutica generale nel senso di Schleiermacher, vale a dire una riflessione su che cos'è comprendere, sul posto del lettore, la storicità del senso e così via, fa da órganon all'ermeneutica biblica. Ma, in senso inverso, la specificità del religioso fa da inviluppo al proprio órganon filosofico. Alternativamente, l'uno avviluppa l'altro. Questa condizione di reciproco inglobamento non è rara; io l'ho incontrata, come ho detto, in un registro completamente altro, all'interno stesso del discorso filosofico: il filosofo potrà dire di includere un segmento semiotico nella sua teoria del linguaggio, e il semiologo gli potrà replicare che, a sua volta, egli opera la semiotica del discorso filosofico. Qualcosa di simile accade fra il discorso teologico e il suo órganon filosofico, ivi compreso quello della filosofia ermeneutica.
Veniamo, ora, al suo rapporto con il cristianesimo, di cui abbiamo parlato ancora poco, tanto ci siamo concentrati sulla Bibbia ebraica. Il filosofo non ha ugualmente qualche difficoltà ad ammettere il mistero della Risurrezione?
Non rimpiango di aver lungamente soggiornato sul versante di Mosè, di Abramo, dei Salmi, di Giobbe. Di fronte a questi testi si opera la ripartizione fra lettura storico-critica, lettura canonica e lettura kerygmatica, la quale, in ultima istanza, è lettura di fede. Veniamo, dunque, ora al Nuovo Testamento e al suo nucleo, la predicazione della risurrezione. Prima di parlare della risurrezione, voglio richiamare un episodio del Vangelo in cui si gioca la significazione della Passione, dunque quella della morte di Gesù; in effetti, la Passione si dà a comprendere in prima istanza. Il testo al quale penso è quel passaggio dei Vangeli di Marco (8,33) e Matteo (16,23), il solo in cui Gesù tratta qualcuno da Satana. Questo discorso è rivolto a Pietro, al quale fa riferimento la prima tradizione cattolica di lettura e di interpretazione dei Vangeli. Perché questa “uscita” di Gesù contro Pietro? Poiché questi propone a Gesù una sorta di contratto, che consiste nell'arrivare alla gloria senza passare per il Getsemani. Ora, il prezzo da pagare è il Getsemani, giustamente.
Proprio qui è necessario prendere una prima decisione, che ha il suo peso quanto al rapporto con la filosofia. Essa concerne il senso da dare alla Passione e alla morte di Gesù. Una tradizione maggioritaria, che ha una base nel Nuovo Testamento, in particolare in Paolo, ha compreso questa morte nei termini del sacrificio, della soddisfazione vicaria offerta alla collera divina. Gesù punito al posto nostro. Un'altra tradizione minoritaria, ma altrimenti più profonda, e veramente rivoluzionaria in rapporto alle religioni sacrificali, come ha eloquentemente mostrato René Girard, mette l'accento principale sul dono gratuito che Gesù fa della propria vita: “Nessuno mi toglie la vita, io ne faccio dono”. Questa interpretazione non sacrificale è in accordo con uno degli insegnamenti di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Tengo molto a liberare la teologia della croce dall'interpretazione sacrificale. Su questo punto mi trovo d'accordo con ottimi esegeti quali il padre Xavier Léon Dufour, l'autore di Lecture de l'Évangile de Jean e di Face à la mort. Jésus et Paul.
In che cosa questa prima decisione apre la strada a una reinterpretazione dei racconti che vertono sulla risurrezione? Su questo punto, lo confesso, mi allontano non soltanto dall'interpretazione dominante, ma anche da quello che rimane come consenso, per lo meno tacito, dei teologi dogmatici. Ma, forse, proprio qui il filosofo, che io sono, anima l'apprendista teologo, che si agita in me. Mi è sempre sembrato che l'enorme carica narrativa dei racconti, che riportano la scoperta della tomba vuota e le apparizioni del Cristo risuscitato facessero da filtro alla significazione teologica della risurrezione in quanto vittoria sulla morte. La proclamazione: “Davvero il Signore è risorto” (Lc 24,34) mi pare che superi per vigore affermativo il suo investimento nell'immaginario della fede.
Non è, forse, nella qualità di questa morte che sta la messa in moto del senso della risurrezione? Trovo, qui, un appoggio in Giovanni, per il quale la “elevazione” del Cristo comincia sulla Croce. Mi sembra che questa idea di elevazione - al di sopra della morte - si sia ritrovata poi narrativamente sparsa tra i racconti di crocifissione, di risurrezione, di ascensione, di Pentecoste, che hanno dato luogo rispettivamente a quattro distinte feste cristiane. Proprio qui, forse ancora una volta sotto la spinta del filosofo che è in me, sono tentato, sulle tracce di Hegel, di comprendere la risurrezione come risurrezione nella comunità cristiana, la quale diventa il corpo del Cristo vivente.
La risurrezione consisterebbe nell'avere un altro corpo da quello fisico, vale a dire nell'acquisire un corpo storico. Sono, forse, interamente eterodosso? Mi sembra di dare qui un prolungamento a certe parole di Gesù vivente: “Chi vuol salvare la propria vita, la perda”, parola mirabile che non annuncia alcuna prospettiva sacrificale; e altrove: “Sono venuto per servire e non per essere servito”. L'accostamento fra questi due testi mi suggerisce che la vittoria sulla morte nell'atto del morire non sia differente dal servizio agli altri, che si prolunga, sotto la guida dello spirito del Cristo, nella diaconia della comunità. Questa interpretazione, lo riconosco, è l'espressione di quello che Léon Brunschvicg avrebbe, senza dubbio, chiamato un “cristianesimo da filosofo”, per distinguerlo da una filosofia cristiana come quella di Malebranche.