(Da F. Nietzsche, L'Anticristo, tr. it. di Giorgio Penzo e Ursula Penzo Kirsch, Milano, Mursia, 1982, pp. 67-70)
Friedrich Wilhelm NIETZSCHE (1844-1900)
Non è esistito che un solo cristiano
Torno sui miei passi e faccio la vera storia del cristianesimo. La parola “cristianesimo” è già un equivoco; in fin dei conti non è esistito che un solo cristiano, e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce. Ciò che da allora in poi si chiamò “Vangelo”era già l'opposto di quel che lui aveva vissuto: un cattivo messaggio, un dysangelium. È falso sino alla stupidaggine il vedere in una “fede”, per esempio nella fede nella salvezza per opera di Cristo, il segno caratteristico del cristiano. La pratica cristiana, una vita tale quale la visse colui che morì in croce, soltanto questo è cristiano... Ai nostri giorni è ancora possibile una vita simile, anzi per certi uomini è perfino necessaria: il cristianesimo vero e primitivo sarà possibile in tutte le epoche... Non una fede, ma un operare, soprattutto un non fare certe azioni, un altro essere...soltanto la croce che generalmente era riservata alla canaglia, questo spaventoso paradosso condusse da solo i discepoli davanti al vero problema: Chi era costui? Che significava ciò? Si comprende fin troppo bene il senso di costernazione e di offesa fin nel profondo dell'essere; il sospetto che una simile morte potesse essere la confutazione della loro causa; il terribile punto interrogativo: “perché proprio così?”. Qui tutto doveva esser necessario, doveva avere un senso, una ragione, una suprema ragione; l'amore di un discepolo non conosce il caso.
Solo allora si spalancò l'abisso. “Chi l'ha ucciso? Chi era il suo nemico naturale?”. Questa domanda balenò come un fulmine. Risposta: il giudaismo imperante, la sua classe dirigente. Da allora si trovarono in ribellione contro l'ordine, ed inoltre si intendeva Gesù come un ribelle contro l'ordine costituito. Fino ad allora questa linea combattiva e negativa nel dire e nel fare era mancata alla sua immagine: di più ancora, essa era la negazione di tale immagine. È evidente che la piccola comunità non aveva compreso l'essenziale, l'esempio dato con questa maniera di morire, la libertà, la superiorità su ogni idea di ressentiment: questo prova quanto poco lo comprendeva! Con la sua morte Gesù non poteva voler altro, in sé, che dar pubblicamente la prova più ferma, la dimostrazione della sua dottrina... Ma i suoi discepoli erano lontani dal perdonare questa morte - il che sarebbe stato evangelico nel senso più alto -; o addirittura dall'offrirsi a morire in modo simile con mite e serena placidità nel cuore... Il sentimento meno evangelico, la vendetta vinse di nuovo su tutto.
41. E da allora si presentò un problema assurdo: “Come poteva Dio permettere ciò?”. La ragione conturbata della piccola comunità trovò una risposta di un'assurdità veramente terribile: Dio dette suo figlio in sacrificio per il perdono dei peccati. Oh, come finì tutt'a un tratto il Vangelo! Il sacrificio espiatorio, nella sua forma più ripugnante, più barbara, il sacrificio dell'innocente per le colpe dei peccatori! Quale paganesimo spaventevole! - Non aveva Gesù soppresso perfino la stessa idea di “colpa”? Non aveva negato l'abisso tra Dio e l'uomo, non aveva vissuto questa unità tra Dio e l'uomo come la sua buona novella?.. E ciò non come un privilegio!
Da allora si introdusse a poco a poco nel tipo del Salvatore: la dottrina del giudizio e del ritorno, la dottrina della morte come sacrificio, la dottrina della resurrezione che annulla ogni idea di “beatitudine”, l'intera ed unica realtà del Vangelo, a vantaggio di uno stato dopo la morte... Paolo fece logica questa concezione - concezione sfacciata! - con quella insolenza da rabbino che lo caratterizza in tutte le cose: “Se Cristo non è risuscitato dai morti, la nostra fede è vana”. Ed in un sol colpo si converte il Vangelo nella promessa irrealizzabile più degna di disprezzo, la dottrina inaudita dell'immortalità personale... Lo stesso Paolo la insegnava pure come una ricompensa!
Dalla realtà alla fede
(Da F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, tr. it. di Sossio Giametta, Milano, Adelphi, 1971, p. 385).
A Gesù, che fece della sua vita l'adempimento di tutte le aspettazioni popolari, che non fece altro se non dire: “il regno dei cieli èqui”, che trasformò in spirito la rozzezza di queste aspettazioni: - ma con la morte fu tutto dimenticato (il che significa: confutato), non si ebbe la scelta tra il ritradurre il tipo nell'idea popolare del “messia”, del futuro “giudice”, del profeta in lotta...
Come conseguenza di questo colpo, che questa banda incerta ed esaltata non era all'altezza di sopportare, subentrò subito la completa degenerazione: tutto era stato invano...
Un assurdo involgarimento di tutti i valori e le formule religiose. Gli istinti anarchici contro la classe dominante passano sfrontatamente in primo piano.
L'odio per i ricchi, i potenti, i dotti - col “regno dei cieli”, con la “pace in terra” era finita: una realtà psicologica diviene una fede, un'aspettazione di una realtà che verrà un giorno, “un ritorno”; una vita nell'IMMAGINAZIONE è l'eterna forma della “redenzione” -; oh, quanto diversamente Gesù aveva inteso tutto questo!