(Da B. Croce, La mia filosofia, a c. di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi,1993, pp. 38-41, 46-53)
Benedetto CROCE (1866-1952)
Perché non possiamo non dirci “cristiani”
Rivendicare a sé stessi il nome di cristiani non va di solito scevro da un certo sospetto di pia unzione e d'ipocrisia, perché più volte l'adozione di quel nome è servita all'autocompiacenza e a coprire cose assai diverse dallo spirito cristiano, come si potrebbe comprovare con riferimenti che qui si tralasciano per non dar campo a giudizi e contestazioni distraenti dall'oggetto di questo discorso. Nel quale si vuole unicamente affermare, con l'appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerei e non dirci cristiani, e che questa denominazione e semplice osservanza della verità.
Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall'alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo.
Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica, della medicina, e di quanto altro si deve all'Oriente e all'Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro precedenti antiche, ma investirono tutto l'uomo, l'anima stessa dell'uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l'impulso originario fu e perdura il suo.
La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell'anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all'intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all'umanità. Gli uomini, i genii, gli eroi, che furono innanzi al cristianesimo, compierono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; ma in tutti essi si desidera quel proprio accento che noi accomuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita umana.
E nondimeno codesto non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera; e non fu nemmeno quell'altro e metafisico miracolo che alcuni filosofi (e sopra tutti lo Hegel) costruirono quando si diedero a pensare la storia come un processo lungo il quale lo spirito acquisti l'una dopo l'altra le parti costitutive di sé stesso, le sue categorie - a un certo punto il conoscere scientifico o lo stato o la libertà, e, col cristianesimo, l'intimità morale, - perché lo spirito è sempre la pienezza di sé stesso, e la storia sua sono le sue creazioni, continue e infinite, con le quali celebra l'eterno sé stesso. E come né i Greci né i Romani né gli Orientali introdussero nel mondo quelle forme universali di cui, per enfasi, li si dice creatori, ma in virtù di cui soltanto produssero le opere e le azioni con le quali toccarono altezze prima non toccate e segnarono solenni crisi della storia umana; così anche la rivoluzione cristiana fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi. Tentativi, precorrimenti, preparazioni si sono notati del cristianesimo, come si notano per qualsiasi opera umana - per un poema o per un'azione politica; - ma la luce che quei fatti sembrano così tramandare la ricevono di riflesso, dall'opera che si è poi attuata, e non l'avevano in sé, perché nessun'opera mai nasce per aggregazione o concorso di altre che non sono lei, ma sempre e soltanto per un atto originale e creativo: nessun'opera preesiste nei suoi antecedenti.
La coscienza morale, all'apparire del cristianesimo, si avvivò, esultò e si travagliò in modi nuovi, tutt'insieme fervida e fiduciosa, col senso del peccato che sempre insidia e col possesso della forza che sempre gli si oppone e sempre lo vince, umile ed alta, e nell'umiltà ritrovando la sua esaltazione e nel servire al Signore la letizia. E si tenne incontaminata e pura, intransigente verso ogni allettamento che la traesse fuori di sé o la mettesse in contrasto con sé stessa, guardinga persino contro la stima e la lode e il luccicore sociale; e la sua legge attinse unicamente dalla voce interiore, non da comandi e precetti esterni, che di volta in volta si deve sciogliere, al fine morale da raggiungere, e tutti, per una via o per un'altra, riso spingono nella bassura sensuale e utilitaria. E il suo affetto fu di amore, amore verso tutti gli uomini, senza distinzione di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di Dio e Dio che è Dio d'amore, e non sta distaccato dall'uomo, e verso l'uomo discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo.
Ripigliando questo discorso al punto dal quale ci siamo discostati per fornire gli anzidetti schiarimenti sulla verità che è propria del cristianesimo e sul suo rapporto con la chiesa o con le chiese, e riconosciuta la necessità che il processo formativo e progressivo del pensiero cristiano dovesse provvisoriamente concludersi (come si fa, in fondo, sia lecito tradurre per chiarezza il grande nel piccolo, quando, scritto che si sia un libro, lo si manda allo stampatore e al pubblico, resistendo alla follia dell'infinitum perfectionis), resta, d'altra parte, che il processo doveva essere riaperto, riveduto e portato più oltre e più in alto.
Ciò
che noi abbiamo pensato, non per questo è mai terminato di pensare: il fatto non è mai arido fatto, colpito di sterilità, ma è sempre in gestazione, è sempre, per adoperare un motto del Leibniz,
gros de l'avenir. Quei genii della profonda azione, Gesù, Paolo, l'autore del quarto evangelio, e gli altri che con essi variamente cooperarono nella prima età cristiana, sembravano col loro
stesso esempio, poiché fervido e senza posa era stato il loro travaglio di pensiero e di vita. chiedere che l'insegnamento da loro fornito fosse non solo una fonte di acqua zampillante da
attingervi in eterno, o simile alla vite i cui palmiti portano frutti, ma incessante opera, viva e plastica, a dominare il corso della storia e a soddisfare le nuove esigenze e le nuove domande
che essi non sentirono e non si proposero e che si sarebbero generate di poi dal seno della realtà.
E
poiché questa prosecuzione, che è insieme trasformazione e accrescimento, non si può mai eseguire senza meglio determinare, correggere e modificare i primi concetti e aggiungerne di nuovi e
compiere nuove sistemazioni, e perciò non può essere né ripetizione né impossibile commento letterale e insomma, lavoro banausico (come, in generale, salvo sparsi conati e rare scintille,
nell'età medievale), ma lavoro geniale e congeniale, continuatori effettivi dell'opera religiosa del cristianesimo sono da tenere quelli che, partendo dai suoi concetti e integrandoli con la
critica e con l'ulteriore indagine, produssero sostanziali avanzamenti nel pensiero e nella vita.
Furono dunque, nonostante tal une parvenze anticristiane, gli uomini dell'Umanesimo e del Rinascimento, che intesero la virtù della poesia e dell'arte e della politica e della vita mondana, rivendicandone la piena umanità contro il sopranaturalismo e l'ascetismo medievali, e, per certi aspetti, in quanto ampliarono a significato universale le dottrine di Paolo, slegandole dai particolari riferimenti, dalle speranze e dalle aspettazioni del tempo di lui, gli uomini della Riforma; furono i severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura, coi ritrovati che suscitarono di mezzi nuovi alla umana civiltà; gli assertori della religione naturale e del diritto naturale e della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; gl'illuministi della ragione trionfante, che riformarono la vita sociale e politica, sgombrando quanto restava del medievale feudalismo e dei medievali privilegi del clero, e fugando fitte tenebre di superstizioni e di pregiudizi, e accendendo un nuovo ardore e un nuovo entusiasmo pel bene e pel vero e un rinnovato spirito cristiano e umanitario; e, dietro ad essi, i pratici rivoluzionari che dalla Francia estesero la loro efficacia nell'Europa tutta; e poi i filosofi, che procurarono di dar forma critica e speculativa all'idea dello Spirito, dal cristianesimo sostituita all'antico oggettivismo, Vico e Kant e Fichte e Hegel, i quali per diretto o per indiretto, inaugurarono la concezione della realtà come storia, concorrendo a superare il radicalismo degli enciclopedisti con l'idea dello svolgimento e l'astratto libertarismo dei giacobini con l'istituzionale liberalismo, e il loro astratto cosmopolitismo col rispettare e promuovere l'indipendenza e la libertà di tutte le varie e individuate civiltà dei popoli o, come furono chiamati, delle nazionalità: questi, e tutti gli altri come essi, che la chiesa di Roma, sollecita (come non poteva non essere) di proteggere il suo istituto e l'assetto che aveva dato ai suoi dommi nel concilio di Trento, doveva di conseguenza sconoscere e perseguitare e, in ultimo, condannare con tutta quanta l'età moderna in un suo sillabo, senza per altro essere in grado di contrapporre alla scienza, alla cultura e alla civiltà moderna del laicato un'altra e sua propria e vigorosa scienza, cultura e civiltà.
E doveva e deve respingere con orrore, come blasfema, il nome che a quelli bene spetta di cristiani, di operai nella vigna del Signore, che hanno fatto fruttificare con le loro fatiche, coi loro sacrifici e col loro sangue la verità da Gesù primamente annunciata e dai primi pensatori cristiani bensì elaborata, ma non diversamente da ogni altra opera di pensiero, che è sempre un abbozzo a cui in perpetuo sono da aggiungere nuovi tocchi e nuove linee. Né può a niun patto piegarsi al concetto che vi siano cristiani fuori di ogni chiesa, non meno genuini di quelli che vi son dentro, e tanto più intensamente cristiani perché liberi. Ma noi, - che scriviamo né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese e che comprendiamo, con l'ossequio dovuto alla verità, la logica della loro posizione intellettuale e morale e la legge del loro comportamento, - dobbiamo confermare l'uso di quel nome che la storia ci dimostra legittimo e necessario.
Una
ben significante riprova porge di questa storica interpretazione il fatto che la continua e violenta polemica antichiesastica, che percorre i secoli dell'età moderna, si è sempre arrestata e ha
taciuto riverente al ricordo della persona di Gesù, sentendo che l'offesa a lui sarebbe stata offesa a sé medesima, alle ragioni del suo ideale, al cuore del suo cuore. Perfino qualche poeta, il
quale, per la licenza che ai poeti si concede di atteggiare fantasticamente in simboli e metafore gli ideali e i controideali a seconda dei moti della loro passione, travide in Gesù - in Gesù che
amò e volle la letizia - un negatore della gioia e un diffonditore di tristezza, finì col dare la palinodia del suo primo detto, come accadde al tedesco Goethe e all'italiano Carducci.
Impressioni
e fantasie di poeti furono altresì le nostalgie per il sereno paganesimo antico, di solito contradette con le opposte impressioni e fantasie da quelli stessi che le avevano per poco intrattenute.
La spensierata gaiezza e la celia, che pareva innocente dovunque si rivolgesse e si versasse, su qualsiasi fatto o personaggio glorioso della storia e della poesia, non è sembrata innocente e non
è stata mai permessa intorno alla figura di Gesù, che anche si è ripugnato costantemente a portare sulle scene dei teatri, salvoché nella ingenuità delle medievali sacre rappresentazioni e delle
loro sopravvivenze popolari, alle quali la Chiesa stessa è stata indulgente o che essa stessa ha promosse.
E un'altra riprova è forse da vedere negli atteggiamenti e nelle simbologie di colorito cristiano, di cui si sono di frequente rivestiti i moti politici e sociali della età moderna, anche quelli di carattere più spiccatamente antichiesastico, sicché si è potuto parlare della “città celeste”, che i razionalisti settecenteschi, i volterriani, avevano edificata, del “giardino dell'Eden”, da loro trasferito all'antica Roma o alla felicità arcadica, della “Ragione” e della “Natura”, che tenevano in loro il posto della Bibbia e della Chiesa, e simili; e le rivoluzioni dei tempi moderni si richiamano ai loro “rivelatori”, inviano i loro “apostoli” e glorificano i loro “martiri”.
Gli è che, sebbene tutta la storia passata confluisca in noi e della storia tutta noi siamo figli, l'etica e la religione antiche furono superate e risolute nell'idea cristiana della coscienza e della ispirazione morale, e nella nuova idea del Dio nel quale siamo, viviamo e ci moviamo, e che non può essere né Zeus né Jahvè, e neppure (nonostante le adulazioni di cui ai nostri giorni si è voluto farlo oggetto) il Wodan germanico; e perciò, specificamente, noi, nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli del cristianesimo.
Nessuno può sapere se un'altra rivelazione e religione, pari o maggiore di questa che lo Hegel definiva la “religione assoluta”, accadrà nell'uman genere, in un avvenire di cui non si vede ora il più piccolo barlume; ma ben si vede che, nel nostro presente, punto non siamo fuori dai termini posti dal cristianesimo, e che noi, come i primi cristiani, ci travagliamo pur sempre nel comporre i sempre rinascenti ed aspri e feroci contrasti tra immanenza e trascendenza, tra la morale della coscienza e quella del comando e delle leggi, tra l'eticità e l'utilità, tra la libertà e l'autorità, tra il celeste e il terrestre che sono nell'uomo, e dal riuscire a comporli in questa o quella loro forma singola sorge in noi la gioia e la tranquillità interiore, e dalla consapevolezza di non poterli comporre mai a pieno ed esaurire, il sentimento virile del perpetuo combattente o del perpetuo lavoratore, al quale, e ai figli dei suoi figli, non verrà mai meno la materia del lavoro, cioè della vita.
E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi; e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è perché sappiamo che sempre esso sarà mistero all'occhio della logica astratta e intellettualistica, immeritatamente creduta e dignificata come “logica umana”, ma che limpida verità esso è all'occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi “divina”, intendendola nel senso cristiano come quella alla quale l'uomo di continuo si eleva, e che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo.