Malin è uno dei quattro interlocutori, quattro persone che si trovano per caso su una terrazza di New York, dell'Età dell'ansia, che l'autore - uno dei maggiori esponenti della poesia anglosassone - definisce “egloga barocca ”. Al fondo del poema balena continuamente un sospetto di trascendenza e l'esigenza di una fede da confessare.
AUDEN WYSTAN HUGH (1907-1973)
MALIN pensò:
Per gli altri come me, c'è solo il lampo
Della conoscenza negativa, la notte che ubriachi
Si brancola verso il bagno e si fissa allo specchio
Faccia a faccia la nostra pazzia; la notte che le parole
Dette da nostra madre ci appaiono
Deliziose sciocchezze, e i prudenti consigli
Dei settimanali liberali un'arte tanto perduta
Quanto la terracotta contadina; le nostre passioni
- È chiaro, ormai - non invocano
La Croce, la Clarté o il Senso Comune,
Ma totem primitivi, assurdi
Quanto selvaggi; scienza o non scienza,
È Bacco o il Demonio, o il Gran Baal,
La ruota della fortuna di Ferris o il puro suono fisico
Dei nostri nomi che esse oggi di fatto adorano come motivi e fini.
Tuttavia il più banale dei nostri sogni non è
Peggiore della nostra adorazione se questa in gran parte
È un farfuglio tale da non farci conoscere
Nemmeno la nostra vicina, le fantasie e i bisogni
Di quel povero animale mondano perplesso e impazzito
Che è la nostra ospite: panico personale,
Istinto predatorio sono il contributo
Che noi diamo a quel suo grugnire gregario,
A lei che annaspa nel buio in cerca
Del suo zuccherino perduto. Noi apparteniamo
Al genere umano, siamo giudicati come giudichiamo;
Tutti gli atti del tempo, le varietà di spazio,
Trovano rispondenza nella contraddizione
Del nostro dialetto, discorso doppio
Di corpi ambigui, nati come noi
A quella naturale vicinanza che la stessa negazione
Nostra amica conferma; i nostri corpi
Riflettono la nostra condizione:
Terrestri che implorano la vita eterna
Con l'impeto infinito di spiriti ansiosi,
Finiti di fatto ancorché rifiutino d'esser reali,
Cui occorre la strada ch'è nostra, non volendo dir: sì
A quel Se Stesso identico in ogni tempo,
Quel Sempre Opposto che è l'intero soggetto
Del nostro non-conoscere, e non necessitato
Accondiscese ad esistere, a patire la morte
E, irriso su un patibolo, racchiuse nella Sua vita
La famiglia umana. Noi nell'angoscia lottiamo
Per eluderLo, mentirGli: e pure il Suo amore mantiene
La Sua tremenda promessa; la Sua prèdilezione
Nella fuga e nel pianto, è con noi sino alla fine;
Sollecito dei nostri pensieri, la nostra minima questione gli è cara.
Quel Suo Bene che interviene nelle nostre ragioni volgari
Considera il nostro procedere, e valuta in nostra vece,
Pur se i nostri corpi, troppo ciechi e stanchi per esaminare
Quale sorte li spinga, vengono uccisi nell'atto che levano
I loro ahi! puerili e, nello scegliere quanti
E quanto ameranno, le nostre menti insistono
Nel loro disordine quasi a punirsi,
Il Problema di Lui squalifica quello dei sensi,
La Sua Verità riduce le nostre teorie a peccati storici;
È quando siamo feriti che Egli s'esprime
Nel nostro lamento, Lui che porta i Suoi figli
Nel loro pazzo non credere ad avere pietà degli uomini
Mentre essi ignari attendono il Suo Mondo a venire.