(Da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di Nicola Palanga e Giuseppe Riconda, Milano, Mursia, 1982, pp. 446-451)
Arthur SCHOPENHAUER (1788-1860)
Gesù Cristo e il cristianesimo
Come s'è visto, l'autosoppressione della volontà deriva dalla conoscenza; ora, ogni conoscenza è, come tale, indipendente dall'arbitrio. Ne risulta che la negazione del volere, la presa di possesso della libertà, non si può raggiungere a forza, e di proposito deliberato. Scaturisce dall'intima relazione della conoscenza e della volontà nell'uomo, e quindi si produce repentinamente, quasi per un'ispirazione venuta dal di fuori. Perciò la Chiesa la chiama un effetto della grazia.
Ma come, secondo la Chiesa, la grazia non riesce efficace se noi non cooperiamo a riceverla, così anche l'effetto quietivo si risolve, in ultimo, in un atto di libera volontà. L'azione ella grazia muta e trasforma dal profondo la natura dell'uomo; che, ormai, sdegna tutto ciò che fino allora desiderava con ardente bramosia; è, davvero, un uomo nuovo che si sostituisce all'antico. E questa è la ragione per cui la Chiesa designa l'effetto della grazia con il nome di rigenerazione. Ciò che la Chiesa chiama l'uomo naturale, cui rifiuta ogni facoltà di bene, è precisamente la volontà di vivere; volontà che deve assolutamente rinnegarsi da chi desideri la redenzione da un'esistenza come la nostra. Perché, dietro la nostra esistenza, si nasconde qualcosa di ben altro; ma qualcosa che non possiamo raggiungere, se non a condizione di scuotere il giogo della vita terrena.
Simbolizzando in Adamo la natura, e l'affermazione della volontà di vivere, la dottrina cristiana non si collocò nel punto di vita del principio di ragione e dell'individuo, ma ebbe come mira l'idea umana nella sua unità; il peccato di Adamo, la cui eredità grava sempre su di noi, rappresenta la nostra unità con Adamo nell'idea; unità che si manifesta nel tempo mediante il vincolo della generazione e che ci rende tutti partecipi del dolore e della morte eterna. Al contrario, la grazia, la negazione della volontà e la redenzione, dalla Chiesa vengono simboleggiate nel Dio divenuto uomo; ,quale, puro d'ogni peccato, cioè d'ogni volontà di vivere, non può sere, come siamo noi, emanato da un'affermazione energica della volontà; né può avere un corpo come il nostro, perché il corpo non è che volontà concreta, fenomeno del volere. Il Dio incarnato nacque da una vergine immacolata, e non ha che un corpo apparente. Quest'ultimo punto era sostenuto dai Doceti; denominazione di alcuni padri della Chiesa, che, nel sostenere quella dottrina, si mostrarono perfettamente conseguenti. Apelle sopra tutti; contro lui, e contro i suoi discepoli, si levò Tertulliano; ma lo stesso sant'Agostino, al passo dell'Epistola ai Romani, 8,3: Deus filium suum misit in similitudinem carnis peccati, appone il seguente commento: Non enim caro peccati erat, quae non de carnali delectatione nata erat; sed tamen inerat ei similitudo carnis peccati, quia mortalis caro erat (Liber 83 quaestion., qu. 66).
Il medesimo sant’Agostino, nell’Opus imperfectum (I,47), insegna che il peccato originale è peccato e pena ad un tempo; esiste già nel neonato, ma non si rende manifesto se non gradatamente con il crescere dell'età. Nondimeno, aggiunse, anche la sorgente di un tale peccato non va cercata fuori della volontà del peccatore. Il peccatore fu Adamo; noi esistevamo in lui; Adamo divenne infelice; in lui, tutti noi divenimmo infelici. La dottrina del peccato originale (affermazione del volere) e della redenzione (negazione del volere) è realmente la grande verità e il punto cardinale del cristianesimo; il resto non è, per lo più, che una veste, un velo esteriore, o un accessorio. Così, bisogna sempre concepire Gesù Cristo dal punto di vista universale, come simbolo o personificazione della negazione del voler vivere, e non come individuo, quale ce lo rappresenta la sua storia mitica negli Evangeli, o quale ce lo mostrano i dati storici veri o verosimili su cui gli Evangeli si fondano. Né l'una né l'altra versione ci può completamente soddisfare; non possiamo vedervi che un veicolo della concezione primitiva, destinato a farle strada nel popolo, il quale ha sempre bisogno di qualcosa di positivo e di concreto. Che, se il cristianesimo dimenticò in questi ultimi tempi il suo vero senso, degenerando in un ottimismo insulso, questa è cosa che non ci riguarda.
C'è ancora, nel cristianesimo, un'altra dottrina primitiva ed evangelica che sant' Agostino, in accordo con i capi della Chiesa, difese contro le grette volgari opinioni dei Pelagiani; e che Lutero (come dichiara egli stesso formalmente nel suo libro De servo arbitrio) si era prefisso, come compito principale della sua missione, di proclamare di nuovo, purificandola da ogni errore: la dottrina, che la volontà non è libera, ma soggetta originariamente alla servitù del male.
Secondo questa dottrina, le opere della volontà sono sempre colpevoli e difettose, non possono mai soddisfare alla giustizia; sono dunque assolutamente impotenti a salvarci: salvarci, può soltanto la fede; la quale, per altro, non deriva da un proposito, da un atto volontario; è semplicemente un effetto della grazia, che scende su noi senza nostra cooperazione, e come in virtù di un'influenza esteriore. Questo dogma puramente evangelico fa parte, come gli altri menzionati poco fa, di quei princìpi che lo spirito gretto e triviale dei nostri tempi rigetta come assurdi, oppure svisa e deforma; nonostante sant'Agostino, nonostante Lutero, l'attuale credenza, imbevuta delle idee grettamente borghesi del pelagianismo, equivalente antico del razionalismo moderno, sdegna questi dogmi profondi, costituenti l'essenza vera e propria del più puro cristianesimo; e preferisce prendere, come punto di appoggio e come pietra fondamentale della religione, un dogma sorto e conservato in seno al giudaismo, ma che non si ricollega all'insegnamento cristiano, se non per via puramente storica.
Nella dottrina suddetta, noi, per quel che ci riguarda, riconosciamo implicita una verità che si accorda perfettamente con il risultato delle nostre considerazioni. Vediamo infatti che la virtù vera e la santità dell'animo hanno l'origine prima, non già nella volontà riflessa (nelle opere), ma nella conoscenza (nella fede): la conclusione medesima che traemmo dallo svolgimento della nostra idea fondamentale. Se le opere, compiute in seguito a motivi, a ragion veduta, bastassero per condurci alla beatitudine, la virtù (si giri la cosa come si vuole) si ridurrebbe a un egoismo accorto, metodico, e lungimirante.
La fede, cui la Chiesa cristiana promette in compenso la beatitudine, consiste nel credere in primo luogo che la caduta di Adamo ci rese tutti partecipi del peccato, abbandonandoci alla morte e alla perdizione; e poi nel fatto che nessuno di noi si può salvare, se non in virtù della grazia dell'intercessore divino, il quale si assunse tutto il peso delle nostre colpe infinite. Ciò, senz'alcun merito nostro personale; perché le opere derivanti dall'azione personale riflessa, cioè determinata da motivi, saranno sempre intrinsecamente inette a giustificarci, costituendo un fare intenzionale motivato, un semplice opus operatum.
Il primo fondamento della fede consiste dunque nel credere che la nostra è, in origine e per essenza, una condizione disperata, che esige una redenzione. Bisogna credere inoltre che noi siamo essenzialmente portati a quel male cui siamo così strettamente incatenati, che le stesse nostre opere conformi alla legge e al precetto (vale a dire ai motivi) riescono assolutamente inette a soddisfare la giustizia e a salvarci. La salvezza non ci può venire che dalla fede e cioè da una radicale trasformazione della nostra conoscenza; la fede, a sua volta, non può entrare in noi se non per opera della grazia, come qualcosa che venga dal di fuori. In definitiva: la salvezza è qualcosa di assolutamente estraneo alla nostra personalità; sua condizione necessaria è anzi proprio la negazione, la soppressione della personale individualità.
Le opere, l'osservanza della legge in quanto legge, non potranno mai giustificarci, perché sono semplicemente azioni regolate su motivi, Secondo Lutero (De libertate christiana), non appena la fede sia entrata in noi, le buone opere ne sgorgano spontaneamente come sintomi e come frutti della fede medesima; però, non costituiscono un titolo di merito, non giustificano e non danno alcun diritto a un compenso, ma si producono spontaneamente e gratuitamente. Anche noi abbiam visto, dal canto nostro, che la comprensione del principium individuationis, man mano che progredisce in chiarezza, produce dapprima il sentimento spontaneo della giustizia, poi l'amore spinto fino alla completa estinzione dell'egoismo, e infine la rassegnazione o negazione assoluta della volontà.
I dogmi del cristianesimo non hanno a che fare con la filosofia: tuttavia ne volli qui far menzione, unicamente per dimostrare come la morale risultante con perfetta coerenza ed armonia da tutto il corso delle nostre considerazioni, benché nuova e in apparenza paradossale nella sua espressione, sia invece ben antica per la sostanza: e in accordo perfetto con i veri dogmi del cristianesimo, i quali ne contengono anzi tutti gli elementi più essenziali; a loro volta, i dogmi cristiani, nonostante la radicale differenza delle forme, si accordano non meno perfettamente con le dottrine e con i precetti morali dei libri sacri dell'India. I dogmi della Chiesa cristiana ci servirono in pari tempo a interpretare ed a chiarire la contraddizione apparente che separa da un lato la necessità che domina tutte le manifestazioni del carattere secondo le leggi dei motivi (regno della natura), e d'altro lato la libertà che possiede il volere in sé di negar se stesso, e di sopprimere ad un tempo il carattere, insieme con la necessità dei motivi di cui è fondamento (regno della grazia).